La meraviglia del triduo pasquale consiste nel porre al
centro un amore capace di rendere completamente liberi. La Pasqua, passaggio dalla
vita caduca alla vita eterna, attraverso la consegna di sé, lo annuncia con
forza. In quaresima due esperienze spirituali, la via crucis e l’adorazione della
croce, ci aiutano a cogliere in pienezza la meraviglia e il significato della
croce.
La croce ci chiama in causa e ci propone un progetto di vita
che si esprime in una maniera sconcertante: CONDIVIDERE LA CROCE.
Essere discepolo del Signore vuol dire condividere la croce:
rinnegare se stessi per accogliere il significato della vita e la propria
umanità dal Signore Gesù, per dire sì alla proposta di vivere la vita come un
dono nella forma della comunione e del servizio ai fratelli e alle sorelle
(lavanda dei piedi).
Condividere la croce ci fa dunque vivere le conseguenze di
ciò che ci appare nel crocifisso: le due dimensioni dell’ABBANDONO FIDUCIOSO IN
DIO e della DEDIZIONE AI FRATELLI E ALLE SORELLE. Le due facce della
carità: l’amore verso Dio e verso il prossimo.
Questo condividere la croce come dire no a se stessi è una
proposta umana o disumana? È rinunciare ad essere uomini, rinunciando alla
propria coscienza? Come mai Gesù vuole avere a che fare con la mia libertà? Sarò
libero, sarò ancora me stesso se la mia coscienza deve essere misurata su Gesù
Cristo e la mia libertà deve essere orientata a camminare dietro a Lui?
«Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se
stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la
propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la
salverà. […] Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato
in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme».
(Lc 9, 23.51)
Ci accorgiamo che in questo brano di Vangelo Luca orienta
tutto il Cammino di Gesù verso Gerusalemme: Gesù ha una sola via e questa si
chiama Gerusalemme.
Gerusalemme è certo la città di Dio, il luogo dell’Alleanza;
non lo è appena per Israele, ma per il mondo intero, in quanto luogo
dell’offerta suprema, della donazione totale di Cristo, è il luogo della Croce.
Che cosa vuol dire l’evangelista Luca con l’espressione: “Bisogna
portare ogni giorno la croce”?
Non è tanto il morire materialmente, ma la decisione, il
coraggio di condividere le scelte fondamentali di Gesù. Decidere che io sarò
uomo o donna in questa maniera, secondo l’amore di Gesù: questo è essere
cristiani. Si tratta di condividere le
scelte di Gesù come il bene nostro, anche se questo è un dire no a noi stessi e
incontrare quella contraddizione che diventa una specie di croce messa sulle
spalle del discepolo. L’Arcivescovo Mario direbbe: “Viviamo di una vita
ricevuta”. Non creiamo una vita a nostra immagine e somiglianza, ma la
riceviamo da Dio.
Non si è discepoli se non si va a Gerusalemme con il
Signore, avendo i suoi stessi obiettivi (la fedeltà fino in fondo al disegno di
Dio e il dono di se stesso per la salvezza degli uomini) e assumendo il suo
stile, uno stile che, sfida la contraddizione, non è affatto uno stile
violento. Gesù è un dolce, un mite, eppure è un forte, sa dove andare, “rende
dura la sua faccia” verso Gerusalemme.
È forte e mite insieme perché la verità non può non esser
buona, non avendo altra forza se non se stessa, senza bisogno di altri
supporti, che sono quelli della violenza o dell’imporsi.
Ci si potrebbe domandare chi è quel se stesso che dobbiamo
rinnegare. Non è il corpo. Non è la sensibilità. Non è l’intelligenza, non è
quella che chiameremmo la personalità, l’individualità di ciascuno. Quel se
stesso che è l’uomo dentro di noi che non
vuole credere. È il cristiano che non vuole assumere il modo di amare di
Gesù. Ci è chiesto di rievangelizzare e
di convertire ogni giorno l’incredulo che è in noi. Occorre ridurre tutto alla
fede cioè al senso delle cose e della vita che ci è apparso in Gesù Cristo e
nella sua parola; tutto anche il corpo, l’affettività’ lo sguardo, anche l’uso
dell’intelligenza e della libertà.
Pietro rispose esattamente alla domanda di Gesù circa la sua
identità: «Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio», (ma questo lo sa anche il
diavolo) ma dava a queste parole un contenuto diverso sbagliato. Dopo che Gesù
ne spiega il vero contenuto Pietro si ribella e dice: «questo non deve avvenire
mai». Gesù risponde: «Va’ via da me, Satana…». Il termine greco però si
dovrebbe tradurre: «Mettiti dietro, cammina dietro a me…» e quando uno di noi
accetta di camminare dietro al Signore diventa discepolo. Quel noi che dovrebbe
morire è quello che preferirebbe camminare davanti al Signore per percorrere
una strada diversa da quella che lui, il Signore, ci invita a percorrere dietro
a lui. Ma così diventiamo pietra d’inciampo! Il modo credente di vivere è
quello vincente perché Gerusalemme è il luogo della donazione totale di sé.
Condividere la croce è il modo più radicale per capire che essere
cristiani non è una questione etnica né anagrafica e neanche di anagrafe
parrocchiale è un fatto di decisione, un fatto della fede che decide di fare
strada con Gesù, al modo di Gesù.
Prima c’è la parola del Signore io sono con te. Poi c’è il vieni
e seguimi. Con il Signore che va a Gerusalemme non c’è mai solo l’esperienza
del morire, c’è sempre un’esperienza del vivere. Allora la croce diventa
qualcosa che si sperimenta mentre si diventa discepoli, ma l’esito di questo
morire per diventare credenti è il luogo dove si può soltanto vivere. (Se il
chicco di grano non muore non porta frutto).